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L’Africa evoca immagini contrastanti, deserti e savane, foreste impenetrabili, fame, contrasti razziali, tutte spesso sovrapposte, con la conseguenza che il quadro è tutt’altro che chiaro.

Per tentare di focalizzare l’immagine, mi limiterò a considerare quella parte dell’Africa compresa tra il Sahara e l’oceano Atlantico, parte che pure ha una estensione analoga a quella dell’Europa occidentale e centrale insieme.

Ovviamente in territori così estesi si hanno sempre forti variazioni climatiche; in questo caso si passa dal deserto alla foresta tropicale di tipo pluviale. Proprio il tipo di foresta che si tenta di salvare in Amazzonia, dato che quella Africana è ormai ridotta a scarni fazzoletti, specie nel territorio in esame. Territorio che rappresenta una delle zone più povere del mondo, con tragici problemi ambientali in quelle ampie parti dove il deserto avanza a velocità di alcuni chilometri all’anno; dove la siccità imperversa. Tutta l’ampia fascia dove il Sahara, mare deserto di rocce e sabbia, cede riluttante spazio agli arbusti della savana, riceve il nome di Sahel, l’approdo.

Approdo cui giungevano le carovane di migliaia di cammelli che commerciavano in oro, schiavi e carbonella, ottenuta dalle acacie della savana fin dai tempi di Erodoto (F.Butera – Fonti energetiche rinn. etc.- PFE Roma 1990 [1]). A questi commerci nel 1400 si aggiunse quello della gomma arabica che ha condotto alla sparizione di grandi foreste di “acacia senegal” dalla Mauritania e dal Senegal.

Fino al XVI secolo grandi imperi come quello del Ghana, del Mali e il Songhai, che si estendevano dall’Atlantico alla Nigeria, si svilup­parono su quei commerci. Dopo di allora solo piccoli regni, a volte solo di qualche villaggio, governarono in modo molto instabile sul vastissimo territorio che non ebbe più di una decina di milioni di abitanti (The Sahel Facing the Future, OECD Parigi 1985 [2]). L’orga­nizzazione sociale era fortemente strutturata, ma non dal punto di vista politico, probabilmente proprio per la scarsa densità della popolazione e per la necessità che le singole comunità di pastori nomadi e contadini che praticavano una agricoltura estensiva, fossero estremamente autonome per affrontare le siccità di 10-12 anni come quelle che si verificarono nel 1600, 1700 ed inizio ‘800. La popola­zione già scarsa, fu per secoli, e sopratutto nel XVIII, falcidiata dalla piaga del commercio degli schiavi, su cui a volte si basava l’effi­mera potenza di alcuni regni locali.

Dalla metà del XIX secolo la cessazione del commercio degli schiavi, spinse alcune popolazioni ad occupare territori fino ad allora considerati inadatti ed insicuri, mentre la creazione delle colonie degli stati europei, particolarmente della Francia creavano nuovamente un esteso potere politico. Il potere coloniale impose le coltivazioni agrarie adatte al commercio con l’Europa, come le arachidi ed il cotone, coltivazioni che richiedevano irrigazione ed espellevano popolazione dalle terre migliori, spingendo la messa a cultura di nuovi terreni. La combinazione di un leggero incremento della popolazione, della distruzione degli alberi delle savane, la riduzione dei periodi di riposo dei terreni coltivati sempre in modo estensivo, innescarono quel processo di degrado che ha avuto rapidissima accelerazione nella seconda metà del nostro secolo. A questa accelerazione ha contribuito anche l’incentivazione all’allevamento dei bovini, che pure sono stati sempre parte delle specie tradizionalmente allevate, tanto che una mandria numerosa è un vero e proprio status-symbol presso molte etnie. Il numero di capi è più che quadruplicato tra il 1940 ed il 1970. I bovini richiedono quattro volte più acqua, a parità di condizioni, dei cammelli, ed al contrario di questi che brucano cibandosi anche di germogli ed arbusti, essi pascolano finendo col distruggere le erbe perenni. La siccità e la presenza dei bovini ha spinto ad estrarre sempre più acqua da pozzi, abbassando le falde e sottraendo così acqua alle erbe ed alle piante; i pozzi poi provocano concentrazione dei bovini in zone limitate, da cui più rapidamente viene eliminata la copertura vegetale. Le gocce d’acqua durante la stagione delle piogge smuovono la terra che viene poi dilavata dalle acque superficiali non più rallentate dal manto vegetale[1]. Il risultato è una forte erosione del terreno con conseguente asportazione dello strato fertile, conseguente scarsa vegetazione ed ulteriore erosione (P.G. Cannata, D.Fanciullacci- La lotta contro l’erosione del terreno in Nigeria- Le Scienze, luglio 1981 [3]). Si dà inizio così ad un processo di degrado continuo del territorio di cui è accusata la siccità, mentre essa ne è solo l’innesco. Riducendo i terreni fertili si tende ad occupare quelli sempre più marginali, spingendo su questi anche i pastori; ma i terreni marginali sono anche i primi a divenire improduttivi alla prima mancanza di piogge, creando quindi una massa di contadini e pastori sbandati che finiscono poveri nelle periferie dei centri urbani, da cui non si allontanano più. Diminuisce così da un lato la produzione di alimenti ( il Sahel è una delle poche zone del mondo in cui ciò si verifica), cambia il tipo di alimenta­zione, passando dal tradizionale miglio e sorgo, coltivabili sul posto, agli importati frumento e riso e la spirale diviene sempre più per­versa. Infatti questi diversi usi alimentari, da un lato riducono il mercato a disposizione dei prodotti locali deprimendone il prezzo e quindi il reddito dei contadini, dall’altro spingono verso coltivazioni di prodotti esportabili e che permettono così l’acquisto dei cereali all’estero, sottraendo ancora spazio alle coltivazioni locali. Anche durante le siccità e carestie peggiori sono aumentate le esportazioni di colture commerciali (M.H.Glantz- La siccità in Africa- Le Scienze agosto 1987 [4]).

L’urbanizzazione  e’ stata fortissima nel Sahel, con molte citta’ che sono passate da qualche migliaio di abitanti negli anni ’50, ad oltre 500000 negli anni ’80, con tassi di crescita che arrivano anche al 10% annuo, che significa il raddoppio ogni 8 anni. Questa crescita tumultuosa porta a citta’ asssolutamente prive di strutture igienico sanitarie, come acquedotti e fognature, con conseguenze pesanti sulla salute delle persone e sui livelli di mortalità infantile, oltre che sul territorio circostante che, in assenza di strutture di trasporto e di reddito, è chiamato  a fornire legna per cuocere il cibo  e materiali da costruzione. Il deserto comincia ai margini delle città; la vegeta­zione scompare per un raggio di alcune decine di chilometri, distanze compatibili con mezzi di trasporto poveri [1]. Ma l’urbanizzazione non accenna a diminuire, anzi si parla di decine di città con più di un milione di abitanti nel primo decennio del prossimo secolo (Long-term picture of sub-Saharian Africa, The Courier, January-February 1992 [5]).

La popolazione non cresce solo in citta’; il tasso di crescita demografico è in questi paesi tra i più alti del mondo, intorno al 3% che significa raddoppio in 24 anni. Inoltre non si intravedono diminuzioni del tasso di natalità e perciò prospettive di stabilizzazione, con­trariamente a quanto avviene in altre parti del mondo. Le cause di questa situazione sono molteplici, connesse al tipo di religiosità ed alla struttura socio familiare della zona, ampiamente condizionate dalle caratteristiche ambientali e climatiche del territorio. I motivi che hanno spinto a conservare tutt’oggi un’agricoltura di tipo estensivo, legati al regime variabile con siccità prolungate, o all’ambiente della foresta pluviale, hanno portato anche ad accentuare l’importanza del numero dei figli rispetto alla formazione di una famiglia patri o matrilineare di tipo euro-asiatica . Il valore predominante per la donna è la fertilità, mentre il padre non è responsabilizzato nei confronti dei figli; ne risulta una diffusissima poliginia e il sostentamento della famiglia affidato essenzialmente alla donna (J.C.Cald­well, P.Caldwell- L’alta natalità nell’Africa subsahariana -Le Scienze luglio 1990 [6]). In alcune zone secondo la Banca Mondiale siamo già notevolmente al disopra del livello di popolazione sostenibile in base all’economia tradizionale, che è tutt’ora praticata, con 20 persone al chilometro quadrato contro le 15 possibili [2].

Il risultato è che il territorio vede ridursi sempre più la copertura vegetale che è essenziale per mantenere e recuparare spazi vivibili.

Se i paesi al confine col Sahara devono lottare contro la desertificazione, quelli prossimi all’Atlantico devono fronteggiare l’avanzare dell’oceano che modifica le coste a causa della scomparsa delle foreste di mangrovia che sorgevano sulle lagune salmastre costiere. Respingere l’invasione dei topi che falcidiano le coltivazioni, data la scomparsa dei pitoni, loro naturale nemico nella foresta tropicale ma che scompaiono con essa. E l’agricoltura di rapina unita all’urbanizzazione incontrollata scoprono i fragili suoli della foresta che presto si mutano in sabbia preda del vento od in pantani fangosi durante la stagione delle piogge. La crescita delle città in assenza di impianti di depurazione fornisce alimento al giacinto d’acqua, pianta infestante che copre ormai ampie superfici di lagune e fiumi, modificando l’abitat delle specie ittiche e la loro composizione, ostacolando finanche la navigazione.

Purtroppo si trascura spesso di considerare lo stato di crisi del territorio circostante la città anche quando si parla di crisi della città stessa. E’ necessario superare la dicotomia tra città e territorio se si vuole affrontare seriamente il problema dello sviluppo. Da un lato c’è chi vede nella città una sorta di parassita che divora risorse umane e fisiche, contrapponendola ad una campagna dipinta come equi­librata e portatrice di valori umani; dall’altro chi dipinge la vita rurale come isolamento, malattia e povertà, contro una città che offre lavoro, cultura rapporti umani.

Al solito ambedue gli schemi contengono parte di verità. E’ indubitabile che la criminalità si sviluppa essenzialmente in città, che in essa domina l’inquinamento, che la crescita illegale delle baraccopoli (slums, favelas etc.) ove vive più di metà della popolazione (A.S.Oberai- Population growth, employement and poverty in Third World mega-cities- The Courier, Jan.Febr.1992 [7]) impedisce la fornitura di quei servizi, acqua, elettricità, fogne che potrebbero innalzare il livello di vita, ma è anche vero che la quasi totalità dell’attività economi­ca si sviluppa nelle città e che i cittadini hanno mediamente un reddito superiore a quello dei loro connazionali.

Sopratutto in città vive la speranza poiché si è a diretto contatto con strati sociali che hanno redditi superiori. La città del terzo mondo è estremamente frammentata e divisa, ma in ciascuna di esse si trova chi vive in condizioni peggiori che nelle campagne, nelle baraccopoli, e chi ha un livello di vita pari a quello dei quartieri bene dei paesi sviluppati; nel mezzo si trovano tutti i livelli immaginabili. Malgrado la separazione socio-strutturale  lo stimolo a cambiare non viene mai meno per raggiungere uno stato confrontabile con quello del vicino. Il lavoro c’è, lavoro nero, informale, non garantito né come orario né come salario o sicurezza, ma c’é. D’altra parte  è questa economia che sostiene i paesi del terzo mondo e che impedisce il collasso di enormi megalopoli prive di trasporti e servizi, prive di autorità che controllano il territorio e quindi assolutamente incapaci di gestirlo e tantomeno di programmarlo (M.Balbo – Frammenta­zione della città e pianificazione urbana nel terzo mondo – Documenti Scuola di Special. in Pianificazione Urbana e Territoriale applica­ta ai P.V.S., novembre 1991, Venezia [8]).

Per incidere quindi sullo sviluppo di questi paesi è necessario tener conto di tutti questi fattori, cominciando a ragionare sull’integra­zione della città e del territorio, integrazione che porterebbe ad avvicinare i mercati cittadini alle zone di produzione agricola e limiter­ebbe la crescita delle megalopoli (G. Fontaine -The EEC and “rurban” development aid – The Courier, Jan.-Febr.1992 [9]).

Il lamento corrente tuttavia è che per aiutare lo sviluppo occorrono risorse e che queste sono scarse. Ma che cosa sono le risorse? Capitali, giacimenti minerari, terreni fertili è la risposta classica, cui oggi alcuni aggiungono anche il “know-how”, cioè le conoscenze tecnologiche. Questa risposta è però parziale ed a causa di questa parzialità ha portato a politiche errate. Gli orientamenti imposti dalla cultura coloniale hanno portato alla formazione di organizzazioni statali centralizzate, sul modello europeo, ad una analoga imposta­zione dell’industria, volta sopratutto ai mercati esteri per riuscire a pagare i debiti dovuti anche all’acquisto delle strutture industriali stesse. La conseguenza e’ stata lo sviluppo di attività che non rispondono ai bisogni dei paesi, alla svendita delle materie prime, miner­arie ed agricole, il cui prezzo è controllato dai paesi indutrializzati ed è quindi sempre tale da ridurne il potere d’acquisto; lo scambio è sempre più ineguale ed il debito cresce mantenendo la spirale perversa dello sfruttamento del territorio.

Non sono certo disposto ad ammettere con gli economisti che le risorse vengono create dall’attività umana, ma è pur vero che l’eplora­zione del sottosuolo Africano è ancora parziale, che il territorio è sottoutilizzato. La densità di popolazione è bassa rispetto a molti paesi europei ed asiatici, tanto che alcuni pensano che lo scarso sviluppo economico dipenda anche da questo.

Queste considerazioni sono però sempre legate all’economia classica che ha sempre trascurato il fattore ambiente. Purtroppo il quadro tracciato all’inizio rende evidente che comunque occorre cambiare criteri e modalità di sviluppo, a partire dall’attuale livello di popola­zione. Sempre più ampio è l’accordo sul fatto che il pianeta è a rischio, anche se divergono le cure proposte e tantomeno si è disposti ad accollarsi oneri per ridurre il rischio.

Il Nord industriale non vuole ridurre gli sprechi, il Sud non vuole considerare il problema popolazione, a volte giustamente, dato il modo in cui viene posto. E’ indubbio però che la densità di popolazione europea è improponibile per altri territori, visto che essa è basata sull’utilizzazione massiccia delle risorse minerarie ed alimentari provenienti dal resto del mondo. Non illudano le eccedenze alimentari, dato che sono ottenute con elevatissimi consumi energetici diretti, non solo per le macchine, ma, ad esempio, per riscaldare le coltivazioni di pomodori in Belgio, ed indiretti (fertilizzanti) e con la trasformazione di alimenti importati (farina di pesce per mangimi animali etc.).

Altrettanto importante è la considerazione che l’eccessiva crescita numerica ha comportato l’impoverimento, dato che essa supera l’aumento del prodotto interno lordo dei paesi in via di sviluppo. Questa considerazione pone in evidenza come questi paesi siano riusci­ti comunque ad attivare la loro economia, malgrado l’indebitamento con l’estero e le carenze strutturali.

La storia mostra come le politiche direttamente rivolte ad incidere sui ritmi di natalità siano sempre state scarsamente efficaci; in questo senso si può dire che abbiano ragione i paesi del terzo mondo quando vogliono prima raggiungere lo sviluppo.

Questo però si allontana se non si incide sulla natalità.

Il problema è insolubile come tutti  quelli malposti. Infatti è essenziale partire da che cosa si intende per “sviluppo”. La crescita econom­ica dello stato di per sé non porta ad un decremento della natalità, perché non migliora la qualità della vita della gente; anzi spesso avviene il contrario perché sono gli abitanti che risentono del degrado ambientale, specie se lo Stato non fornisce assistenza per gli ammalati, pensioni etc.. Sono i figli l’assicurazione per il futuro in tutti i paesi in via di sviluppo.

D’altra parte non si può proporre di fornire questi servizi a strutture statali che a malapena riescono a pagare gli stipendi ai dipendenti.

Ci troviamo di fronte a problemi non affrontabili né con l’ottica della pianificazione né con quella della programmazione classica, poiché alla loro base c’è una concezione meccanicistica dei sistemi.

Forse l’unica possibilità che ci resta è l’adozione di una mentalità evoluzionista, guardandoci però dal cadere nel puro laissez faire e tantopiù dall’adorare il libero mercato.

Se adottiamo l’analogia biologica per la società, dobbiamo considerare che è possibile modificare l’ambiente in cui opera un insieme di organismi, così da far prevalere alcuni di essi su altri, la modifica consistendo in parametri fisici o nell’aggiunta o sottrazione di competi­tori rispetto agli organismi che interessano.

In fin dei conti tutti i paesi oggi industrializzati, ad eccezione forse di alcuni dell’Asia che sono cresciuti economicamente in particolari nicchie di mercato, hanno adottato per periodi più o meno lunghi il protezionismo, costruendosi anche opportuni mercati, le colonie, a questo scopo.

Oggi il protezionismo è improponibile nelle sue forme storiche, anche se viene praticato in forme più o meno evidenti da tutti i paesi industrializzati; più spesso si cerca di ampliare alcuni mercati, più o meno protetti da accordi bilaterali o normative tecniche, vedi la CEE, l’EFTA e raggruppamenti analoghi nel Pacifico o nel Nord America. Solo i paesi del terzo mondo tentano di strappare accordi privilegiati con questi mercati ma stentano a crearne di simili; essi infatti commerciano per lo più materie prime che trovano utilizza­zione proprio nei paesi industrializzati. L’interscambio commerciale Sud-Sud è a livelli bassissimi, mancano i collegamenti, l’informa­zione. Per andare in aereo da una capitale africana ad un’altra è spesso necessario passare dall’Europa; mancano ferrovie, strade; le agenzie di informazione giornalistica e televisiva sono monopolizzate dai paesi industrializzati.

Il problema di quale sia l’ambiente adatto allo sviluppo scientifico industriale è stato poco affrontato , tuttavia è indubitabile che la libertà di informazione, di scambi e la diffusione delle conoscenze siano essenziali (N.Rosenberg, L.E.Birdzell jr.- Scienza, tecnologia e sviluppo economico- Le Scienze, gennaio 1991 [10]). Parlo di conoscenze e non di istruzione, dato che l’istruzione di tipo occidentale ha avuto l’effetto opposto, dando origine a classi di burocrati con elevata cultura umanistica oppure ad un vero e proprio drenaggio di cervelli, data l’impossibiltà di utilizzare un gran numero di persone con elevata preparazione accademica. Nel 1988 c’erano 80000 esperti stranieri coinvolti nell’assistenza tecnica a 40 paesi africani, mentre 30000 laureati cittadini degli stessi stati sono emigrati tra l’84 e l’87 nel mondo industrializzato (D.Chitoran – Higher education and development – The Courier, Sept.-Oct. 1990 [11]). Facendo riferimento all’Africa sub-Sahariana, le condizioni indicate mancano. Mancano anche le condizioni di sopravvivenza dei figli, di salute, che sole spingono le persone a limitare il numero dei figli e ad occuparsi della loro crescita. Manca la considerazione sociale del lavoro delle donne, che può permetter loro di sposarsi più tardi e di non contare solo sulla fertilità per essere considerate. Per certi aspetti le donne africane hanno sempre avuto un ruolo più attivo e più libertà rispetto a quelle del resto del mondo, ma sempre nell’ambito di quella famiglia allargata di cui prima riferivo[6]; l’autonomia economica, al di là della sopravvivenza, è stata ed è una loro continua conquista (Intervista a M.Lamizana, Testimonianze, giugno 1990 [12]). Agire su questi fattori significa modificare l’ambiente in cui gli organismi sociali si sviluppano, attraverso la legislazione sulla famiglia ed il diritto di proprietà, attraverso l’alfabetizzazione diffusa, attraverso programmi di informazione sanitaria, di formazione professionale. Tutti obiettivi che certo non sono gratuiti, ma che sicuramente costa­no meno denaro di industrie faraoniche destinate ad arrugginire sotto la pioggia, di ospedali che poi restano senza medicine, di arma­menti ed eserciti destinati a mantenere l’ordine. Certo costano anche in termini politici, perché richiedono la concessione di autonomie locali, di non fare distinzioni etniche o religiose, la rinuncia alla certezza delle carriere politiche a vita.

Solo così possono emergere le “risorse” e principalmente quella convinzione che ne è levatrice, che il futuro degli Africani è nelle loro mani e non in quelle degli stranieri (I.Diallo, Secretary of U.N. Economic Commission for Africa, intervista su The Courier, Jan.-Febr. 1992 [13]).

Non che gli stranieri debbano lasciare l’Africa al proprio destino, anzi molto debbono e possono fare gli Stati e le organizzazioni inter­nazionali, nonché le Organizzazioni Non Governative (O.N.G.). E’ tempo però di cambiare obiettivi e metodi, ma questo si può fare solo abbandonando il criterio dell’aiuto caritativo o di emergenza. Spesso vengono arrecati danni  alle stesse possibilità di sopravvivenza delle popolazioni[1]; è incredibile il numero dei contadini poveri, nerbo della capacità produttiva agricola, rovinati dagli aiuti alimentari.

Dagli aiuti bisogna passare agli investimenti. Come quelli che si dice di voler effettuare nei paesi dell’Est, per cui si parla di sviluppo di mercati, linguaggio misconosciuto se riferito all’Africa. L’Europa si sente stretta tra la recessione economica  e l’invasione degli immi­grati, non riuscendo ad esprimere compiutamente una politica economica verso quei vasti e popolosi, sempre più popolosi, territori che si stendono tra il Mediterraneo e l’Atlantico.

La realizzazione di infrastrutture di trasporto si è storicamente dimostrata essenziale in Europa e in America per la crescita economica dei territori, basti pensare alla crescita delle industrie meccaniche e siderurgiche collegate alla costruzione delle ferrovie.

Oggi il Sahara appare spesso in televisione come campo di gara di moto ed auto in pazza corsa tra smagrite mandrie.

Dopo di loro non resta che una nuvola di polvere.

I cammelli che in carovana viaggiano uno dietro l’altro in lunghe file sinuose hanno portato per secoli la ricchezza; essa forse potrebbe viaggiare su di un altrettanto sinuoso treno, ma più veloce.

(Testimonianze n.350, 1992)