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In molti dicono che non dobbiamo permettere che da questa tragedia della pandemia si esca con le vecchie logiche di sviluppo. Già negli anni ’70 i lavori di vari autori (B. Commoner, La povertà del potere, Garzanti 1976, Gabor&Colombo, Oltre l’età dello spreco, EST Mondadori 1976 ) mostravano come l’intensità dei consumi di capitale, risorse ed energia fosse inversamente proporzionale alla richiesta di lavoro. In altre parole, un oggetto che richiede alti costi di materiali ed energia durante la sua vita, richiede poco lavoro per produrlo e mantenerlo. La Pennacchi (Il manifesto 1/5/’20) ricorda che il New Deal roosveltiano si basava “sull’idea-cardine che alle persone si dovesse dare non un sussidio ma un lavoro con una paga adeguata”. Non tutti si rendono conto dello stretto legame tra posti di lavoro e consumi energetici.

Purtroppo quando si parla di energia, per la maggior parte delle persone la mente corre solo all’energia elettrica, anche se essa non è che una quota di circa il 20% dei consumi Italiani. Tale idea è ulteriormente rafforzata dalla necessità di passare alle fonti rinnovabili, per lo più produttrici di energia elettrica.
Un aspetto da considerare è la differenza tra fonti energetiche ed energia. In realtà alla popolazione interessa scaldarsi, cuocere i cibi, spostarsi, avere l’illuminazione etc. Interessa cioè avere una serie di servizi che possono essere forniti in modo diverso; ad esempio si può usare un treno con automotrice che va a benzina od un treno elettrico che riceve energia da una centrale idroelettrica, il servizio reso non cambia. Quindi occorre considerare il servizio e la quantità e la forma di energia necessaria a fornirlo. Purtroppo si parla di solito di bilanci energetici mentre in realtà si fanno i bilanci delle risorse, delle fonti utilizzate per produrre l’energia e non si valuta correttamente quella che è l’energia effettivamente usata. Infatti quest’ultima dipende fortemente da come vengono utilizzate le risorse, da quale sistema di distribuzione e trasformazione possiede il paese e da come questo considera le leggi della termodinamica. La qualità termodinamica dell’energia va strettamente legata all’uso che se ne fa; come vien detto da tanto tempo, usare energia elettrica in una resistenza per fare acqua calda a 50°C è uno sperpero assurdo.

Nell’attuale crisi climatica è inoltre fondamentale ridurre rapidamente le emissioni di CO2 equivalente, contemporaneamente avviando la transizione ad un sistema basato solo sulle fonti rinnovabili. Parlando di sistemi di produzione e distribuzione di energia non si può dimenticare l’entità delle risorse materiali e monetarie da impegnare. E’ perciò importante usare le infrastrutture esistenti per indirizzarle ad un nuovo sistema.
Le direttive europee richiamano al risparmio spinto in particolare nel settore dell’edilizia che rappresenta il 40% dei consumi energetici finali, portando al concetto di edificio NZEB, con bilanci energetici in pareggio. Ciò è possibile però negli edifici nuovi; che fare per tutti quelli esistenti, in particolare nei centri storici? Possiamo modificare gli impianti ed usare tecnologie esistenti utilizzando il metano in modo termodinamicamente corretto in impianti di cogenerazio¬ne, cioè di produzione contemporanea di calore ed elettricità, ed usare tali impianti nella fase di transizione se, oltre ad utilizzare direttamente il calore di scarto dalla produzione di energia elettrica nel riscaldamento/condizionamento, si usa l’energia elettrica per riscaldare altre abitazioni con pompe di calore. Il metano bruciato in una caldaia a condensazione viene usato al 95 %. Se usato come sopra indicato fornirebbe il 150% almeno (rendimento termico motore 30%, elettrico 30%, COP pompa di calore 4. Fatto 100 il contenuto energetico del metano, 30 è usabile direttamente come calore, 30 come energia elettrica che, azionando una pompa di calore fornisce calore almeno 4 volte l’energia elettrica assorbita, 30+4*30= 150). A parità di servizio emetteremmo il 40% in meno.

Il passaggio a “tutto elettrico” richiede la realizzazione di infrastrutture per una rete elettrica che interconnetta i produttori locali, ma richiedendo risorse ingenti, dato che dovremmo quintuplicare la produzione e relativa distribuzione di energia elettrica. Le tecnologie esistono e darebbero lavoro a molte persone. L’uso dell’idrogeno come sistema di accumulo è da perseguire, anche se solo in associazione con fonti rinnovabili per la sua produzione. In prospettiva si potrebbe utilizzare metano ottenuto con idrogeno da fonti rinnovabili come propone il progetto EU Store&go (https://www.storeandgo.info/) riutilizzando tutte le infrastrutture esistenti. Il metano sarebbe ottenuto da una reazione chimica classica tra idrogeno ed anidride carbonica (CO2) ricavata dall’atmosfera o da residui organici (processo Sabatier).
L’idrogeno viene proposto da tempo come vettore energetico, ma non si considera che è inefficiente come tale, contrariamente a quanto pubblicizzato da enti come ENI. Infatti ha un elevato volume specifico e quindi bassa densità energetica per unità di volume (tab. I),

Materiale Densità di energia MJ/m3
10,05 (gas 1 bar 15°C)
Idrogeno 1 825,00 (gas – a 200 bar e 15°C)
8 491,00 (liquido 1 bar -252,88°C)
32,56 (gas 1 bar 15°C)
Metano 6 860,30 (gas a 200 bar e 15°C)
20 920,40 (liquido 1 bar -162°C)
Benzina 31 150,00 (liquido 15°C)
Batteria al piombo 324,00

Tabella I

inoltre richiede infrastrutture particolari dato che infragilisce l’acciaio e quindi non è utilizzabile in impianti e tubazioni che usano questo materiale. La Snam che si propone per il suo dispacciamento, in realtà anche sul proprio sito web parla di una miscela di idrogeno e metano da inviare negli attuali metanodotti, con un massimo del 30% di idrogeno.
Anche nei trasporti la bassa densità energetica per unità di volume richiede che esso venga compresso, si parla di 300 bar, con inefficienze di ciclo e rischi nell’uso. Si consideri che i criteri di sicurezza sono diversi per i vari gas ed è necessaria formazione specifica per ciascuno di essi, spesso assente come dimostrano i morti sul lavoro e per incidenti dovuti a questa ignoranza. Dato che la combustione dell’idrogeno non produce CO2 viene proposto per molti usi, ma la sua provenienza è realmente “pulita”, è “green”, solo da fonti rinnovabili. Oggi però quello sul mercato è “grigio” ( o “blu”) perché ottenuto da combustibili fossili, prevalentemente metano “decarbonizzato” producendo CO2 che dovrebbe essere immagazzinata in vari modi, prevalentemente sotto terra, milioni di tonnellate, vedi progetto ENI-SNAM su Ravenna, che vorrebbero realizzare con i fondi EU, vendendo una inesistente transizione che comunque permetterebbe loro di sfruttare i giacimenti di metano fino ad esaurimento.
Il mito dell’idrogeno affascina anche i produttori di aerei come AIRBUS (P. Jadeluca, AF La Repubblica 12/10/2020) che parla di realizzare antro il 2035 aerei che usano idrogeno liquido, tecnologia fino ad oggi usata solo per alcuni razzi lanciatori come il Saturn americano, però per tempi brevissimi e senza porre attenzione al consumo complessivo di energia, condizionato dal portare l’idrogeno a -253 °C. E’ opportuno ricordare che il raffreddamento di un sistema richiede tanta più energia quanto più bassa è la temperatura da raggiungere, tendendo all’infinito per raggiungere lo zero assoluto che si trova a -273,15 °C.
Quindi oltre al problema sicurezza esiste quello del consumo energetico folle che una simile proposta comporta.

La fame di potere continua a spingere la realizzazione di nuovi impianti nucleari, dimentichi di Fukushima, dove ancora non sanno che fare delle acque radioattive proponendo solo di buttarle in mare, e del fatto che non si è ancora risolto il problema delle scorie. Praticamente tutti i progetti di confinamento definitivo sono fermi; il caso dei depositi tedeschi in giacimenti salini si è rivelato un errore costosissimo a causa delle infiltrazioni di acqua con crollo dei giacimenti ed inquinamento radioattivo delle acque di falda (https://www.youtube.com/watch?v=JTEdJX6rlrs). Da noi la Sogin, società pubblica, continua a bruciare miliardi per smantellare le poche nostre centrali e non riesce a trovare il deposito finale (L. Iezzi, AF La Repubblica 10/10/2016). Tuttavia si realizzano impianti nucleari in un paese come gli Emirati Arabi, ad un passo dagli impianti petroliferi distrutti da misteriosi droni in Arabia Saudita non molto tempo fa. Senza sistemi di sicurezza evoluti, come dichiarano esperti favorevoli al nucleare (S. Di Lellis, La Repubblica 2/8/2020).
Per quanto riguarda la fusione termonucleare ritengo sia ancora attuale l’articolo di V. Cirillo del 1994 (Le Scienze, n.316, 12 1994 p.5). Purtroppo nessun reattore sperimentale ha ancora raggiunto una produzione di energia maggiore di quella assorbita per funzionare. Il reattore ITER (https://www.iter.org/), sperimentale, è ancora in costruzione, malgrado si prevedesse di completarlo nel 2010. Comunque si parte dal solito concetto di produrre calore da convertire poi in lavoro; termodinamicamente una assurdità vista la qualità termodinamica della fonte. Dopo 70 anni di ricerche non si intravedono ancora prospettive concrete, solo promesse. Come scriveva Cirillo “..se qualcuno proponesse oggi all’UE investimenti di 1600 miliardi di lire (circa 1miliardo di euro attuali) all’anno per 60 anni in cambio di una probabile fonte di energia illimitata …. verrebbe semplicemente ignorato”. Inoltre il processo non è così “pulito”, dando sempre origine a rifiuti radioattivi. Investimenti minori in fonti rinnovabili sarebbero sicuramente più economici, con minore impatto ambientale e maggior diffusione sul territorio

Purtroppo l’analisi del sistema complessivo è normalmente assente ed in particolare pare completamente sconosciuto il secondo principio della termodinamica, pure enunciato da Carnot nel 1824. Il programma Desertec (https://www.desertec.org/), che punta soprattutto su impianti a concentrazione, cosiddetto solare termodinamico, da realizzare nei deserti del Nord Africa, facendo bollire l’acqua segue la stessa linea di bassa efficienza termodinamica delle attuali tecnologie nucleari. Non è poi esente da una visione colonialista, dato che l’energia prodotta dovrebbe rifornire l’Europa. La ricerca dovrebbe puntare ad utilizzare correttamente le risorse, non ad inventare sempre diversi pentoloni in pressione per sfruttare male una risorsa scarsa. Un impianto che usa cicli termodinamici per trasformare calore in lavoro deve sempre cedere calore all’ambiente e questo sarà tanto maggiore quanto minore è l’efficienza del sistema di conversione.
E’ necessario puntare prima di tutto ad una razionalizzazione termodinamica del sistema energetico complessivo, dalla produzione alle utenze, perché ciò significa minori consumi ed inquinamento a parità di servizi.
Per avere un sistema capace di adeguarsi ai cambiamenti del mercato dell’energia è fondamentale realizzare impianti che non impongano rigidità strutturali, cioè impianti di dimensioni non eccessive, così da ridurre i rischi di interruzione delle forniture aumentando il numero dei fornitori, diversificando le fonti e possibilmente utilizzando fonti non dipendenti da importazioni. Impianti che non usino prodotti il cui ciclo di lavorazione non sappiamo ancora chiudere, come nel caso del nucleare che ancora non ha risolto il problema delle scorie, che non presuppongano il controllo del territorio da parte di autorità eterne.
E’ necessario considerare che la distribuzione territoriale condiziona il ciclo di produzione e quindi i consumi energetici e la produzione di inquinanti.
Integrazione su scala territoriale sia delle attività industriali che di quelle civili, per risparmiare energia e ridurre l’inquinamento, questa è la strada che può creare un sistema sostenibile per il futuro.

La cultura attuale sembra invece rigettare e dimenticare ogni elaborazione e sforzo che cerchi di dare una chiave di lettura ed interpretazione della realtà diversa da quella usuale. La crisi climatica ed i movimenti di giovani che reclamano di poter avere un futuro, associata alla crisi economica derivata dalle bolle finanziarie del 2008 hanno riportato in discussione il capitalismo e la sua necessità di crescita continua, misurata essenzialmente da quel PIL (Prodotto Interno Lordo) già criticato da Robert Kennedy troppi anni orsono e superato da parametri come l’indice di sviluppo umano (HDI Human Development Index) usato dall’ONU. Personalmente non sono contrario alla crescita in assoluto, per tener conto dello sviluppo dei Paesi emergenti, ma sono convinto che tale sviluppo non possa e non debba seguire le orme di quello dei paesi industrializzati, pena la loro e nostra scomparsa. L’ambiente non è un optional da ricchi, né dovrebbe richiedere tecnologie ad hoc per la sua difesa. La sostenibilità ambientale avvantaggia soprattutto i meno abbienti, più facilmente vittime di alluvioni e temperature eccessive, oltre che meno capaci di ottenere cibo ed acqua a sufficienza. Le carestie hanno avuto spesso origine da scarse risorse economiche più che da effettiva mancanza di cibo.
E’ necessario però che le tecnologie produttive siano compatibili con l’ambiente, cioè il progresso tecnologico non deve essere orientato all’aumento della produttività dei lavoratori, ma soprattutto all’aumento della produttività del capitale, soprattutto di quello naturale. Mi rifaccio qui agli scritti di Hermann E. Daly (Lo stato stazionario, Sansoni 1981), a quelli di Barry Commoner o di Orio Giarini (Dialogo sulla ricchezza e il benessere, Mondadori 1981) per non parlare di N. Georgescu-Roegen, che dovrebbe essere ben conosciuto da chi si interessa di economia.
Si parla sempre più di sviluppo invece che di crescita, ma spesso si intende la stessa cosa, anche se la distinzione sarebbe stata introdotta proprio per tener conto del fatto che la crescita economica non corrisponde sempre e soltanto ad una maggiore produzione di oggetti e consumo di risorse; lo scambio di servizi ha valore economico ma non comporta necessariamente il consumo. Che il pianeta e le sue risorse siano finite dovrebbe essere evidente a tutti, quindi la crescita di consumi non può continuare all’infinito ed è necessario assicurare equità nell’uso delle risorse. E’ impossibile pensare ad una tutela dell’ambiente, quindi ridotti consumi, senza giustizia sociale.
Occorre leggere in positivo anche altri parametri come la tecnologia, da riconsiderare in rapporto agli obiettivi che ci si pongono, e non associarla solo alla riduzione di posti di lavoro o sviluppo di nuovi mercati. L’aumento di produttività può portare ad aumentare l’occupazione, se l’aumento di prodotto ottenuto viene messo in rapporto al capitale impegnato e non al lavoratore occupato. Aumentare l’efficienza può significare ridurre i consumi di energia a parità di lavoro prodotto riducendo anche i danni ambientali e non solo il guadagno di denaro in rapporto alla spesa.
Esistono da decenni metodologie di valutazione dei processi, ad esempio l’analisi del ciclo di vita (LCA) già normata da anni (ISO 14040), che permettono di scegliere le tecnologie con minor impatto ambientale complessivo, dalla culla alla tomba. Solo utilizzandole sarà possibile costruire la tanto decantata economia circolare. Non dimenticando mai che nel ciclo ci saranno comunque perdite; dalla termodinamica sappiamo che un riciclo totale è impossibile.
E’ necessario abbandonare i luoghi comuni e tornare ad assegnare alle parole il loro significato originario e non solo il senso traslato, se vogliamo ragionare sul futuro degli uomini e sul loro benessere su questo pianeta, se vogliamo che “sviluppo sostenibile” non sia solo un vuoto slogan per chi vuole continuare a mantenere un’impossibile status quo.

29 ottobre 2020