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La maggior parte dei problemi odierni vengono collegati alla cosiddetta innovazione tecnologica, usando un termine molto generale che non riflette la situazione reale. L’innovazione di cui si tratta in realtà non è relativa alle diverse tecniche di realizzazione e lavorazione dei prodotti, ma è rivolta essenzialmente al trattamento dell’informazione. Pur essendo specializzata, essa ha una ricaduta amplissima, confrontabile a quella che ebbe a suo tempo l’introduzione dell’elettricità nei processi di produzione, che permise per la prima volta l’indipendenza delle diverse macchine e degli stabilimenti dal luogo di produzione dell’energia.

Il significato letterale del termine informare è, nella lingua italiana, quello di mettere in forma, dare forma. Tutte le volte che produciamo un oggetto, diamo forma ad una materia prima altrimenti non utilizzabile, aggiungiamo informazione ad un materiale che solo così diviene significativo nei nostri rapporti con il mondo e gli uomini. Della creta diviene una brocca solo attraverso alcune fasi di lavoro, tornitura, cottura, che dando forma e struttura alla materia prima permettono un uso rispondente allo scopo per cui essa è stata ideata.

Se i prodotti inglobano informazione allora i trasporti, che permettono lo scambio di informazioni sotto forma di prodotti e del modo di produrli, sono una rete di comunicazione, come si dice usualmente, cioè di scambio di informazione. Lo sviluppo di linee di trasporto è sempre stato all’origine della crescita di città ed economie, basti pensare alle città nate lungo le piste carovaniere, alla realizzazione delle grandi linee ferroviarie dell’ottocento, che permisero lo sviluppo economico del Far West americano e dell’Europa, alla transiberiana, che ha permesso di “unificare” la grande Russia.

L’incremento dei trasporti non significa solo maggiore quantità di prodotti scambiati, ma riducendo i tempi di comunicazione, comporta la possibilità di modificare anche la tipologia, la qualità dei prodotti, si pensi alla possibilità di commerciare prodotti deperibili, conducendo anche ad una più rapida interazione tra  culture sempre più lontane spazialmente.

Lo scambio di conoscenze, di informazione, permette poi di aumentare le risorse disponibili per coprire i bisogni fondamentali od indotti delle società. Le risorse infatti non sono altro che materiali suscettibili di utilizzazione per ottenere prodotti, cioè materia organizzabile per la produzione che può incorporare informazione.

Se produrre significa inglobare informazione nella materia, allora molte trasformazioni dei rapporti sociali possono essere lette in termini di lotta per il controllo dell’informazione e l’innovazione tecnologica non è altro che la capacità di utilizzare informazione proveniente da chi lavora o dall’ambiente per modificare le modalità di produzione.

Se la sgranatrice di Whitney del 1793 e la “giannetta filatrice” del 1764 rappresentano l’applicazione dell’intelligenza creatrice alla soluzione del problema della sfibratura del cotone e della realizzazione del filo per tessere, tanto da dare inizio alla rivoluzione industriale permettendo produzioni di cotone (anche di bassa qualità come quello americano) e di filo che per la prima volta liberarono l’umanità dalla scarsità di tessuto per gli abiti, la successiva realizzazione dei telai meccanici introduce già una diversa sorgente di informazione, l’energia [1].

I telai meccanici avevano necessità di più energia di quella sviluppabile dall’operaio tessitore e quindi richiesero prima l’utilizzazione industriale dell’energia dell’acqua e poi di quella del vapore imbrigliata con efficienza da Watt nel 1776. L’energia prelevata dal combustibile è un modo di utilizzare l’informazione chimica in esso contenuta, ma richiedeva ulteriori conoscenze ed elevati investimenti [2]. Quindi per la prima volta la produzione poté affrancarsi dalla conoscenza specifica e dall’energia fornite dal singolo lavoratore, nello steso tempo il singolo che non avesse disponibilità di capitali da investire non poteva accumulare sufficiente informazione da dare inizio alla produzione stessa. La semplificazione e la standardizzazione dei compiti degli operai permise di addestrarli rapidamente facilitando l’intercambiabilità, e conseguentemente svalutando le competenze. L’informazione posseduta dall’operatore era stata inglobata nella “fabbrica”. Il processo si è poi ripetuto anche in altri campi, sia a danno del lavoratore che dell’ambiente esterno, come quando la realizzazione dei coloranti da parte dell’industria chimica fece scomparire le coltivazioni agricole di piante per tintura.

Nell’industria meccanica, dove fino alla fine dell’ottocento gli operai specializzati andavano al lavoro con i propri attrezzi, il processo ha raggiunto il livello maggiore con la catena di montaggio che riduce la conoscenza richiesta all’operatore a poche operazioni, mentre l’informazione per la produzione è patrimonio della fabbrica, intesa come sistema di macchine e conoscenze di progetto e gestione.

Tuttavia tale processo aveva trovato un limite nella velocità di trasmissione dell’informazione all’interno del sistema di produzione. Malgrado la standardizzazione dei componenti, che risolve problemi di manutenzione e di produzione, malgrado l’uso del disegno come mezzo di comunicazione del progetto all’operatore, la realizzazione richiedeva la vicinanza fisica delle diverse operazioni. Nel corso degli anni, fino circa al 1960,  si era passati dalla fabbrica in cui entravano le materie prime, a quella a cui arrivavano dei semilavorati, ma la fabbrica era ancora il luogo di produzione nel senso di luogo in cui si dava forma alle risorse per ottenere un determinato prodotto. Comunque restavano anche all’interno problemi non marginali di comunicazione tra i diversi reparti, anche per i diversi tempi richiesti dalle varie operazioni. Già negli anni settanta il miglioramento delle comunicazioni aveva portato ad un notevole snellimento delle “fabbriche” con una utilizzazione sempre maggiore di subfornitori che facevano arrivare componenti preassemblati. Questo processo era stato agevolato dallo sviluppo delle macchine a controllo numerico che avevano permesso un notevole aumento della produttività pro capite ed anche un decentramento, potendo svolgere molte operazioni, delle unità produttive. Contemporaneamente le aziende potevano evitare immobilizzo di capitale e problemi di personale, scaricandoli in parte sui subfornitori. In particolare, per seguire le variazioni della richiesta si dimostrò più comodo variare semplicemente l’entità degli acquisti esterni piuttosto che il numero dei lavoratori, questo specialmente in quelle economie, come quelle europee o giapponesi, in cui il rapporto di lavoro era, ed è, piuttosto rigido.

Ancora per tutti gli anni settanta però si pensava che la fabbrica del futuro sarebbe stata robotizzata ed automatica facendo sorgere domande sull’evoluzione del rapporto di lavoro[3]. I crescenti successi dell’informatica applicata al settore sembravano promettere linee di produzione completamente automatiche e flessibili, più flessibili di qualunque altra che utilizzasse l’operatore umano. Capaci infatti di reggere ritmi di lavoro altissimi senza interruzione, ma anche di variare il prodotto, adattandosi alle diverse richieste. Su questa linea si mossero sopratutto alcune grosse case automobilistiche, tra cui anche la FIAT. Essa in particolare con lo stabilimento di Termoli in Abruzzo realizzò alla fine degli anni ottanta, un complesso quasi interamente automatizzato per la produzione di motori, in collaborazione anche con altri produttori europei, complesso unico al mondo. In esso i pochi lavoratori addetti alla produzione sono specializzati nel controllo del funzionamento di macchine governate da calcolatori. Queste macchine sono l’evoluzione di quelle a controllo numerico e sono molto più versatili. Tuttavia lo stabilimento di Termoli è rimasto unico. Prima della FIAT altre aziende si erano arrestate sulla strada della robotizzazione della produzione. L’uso dei robot si è diffuso molto, sopratutto in una serie di lavorazioni pesanti e pericolose come la saldatura e la verniciatura, ma la fabbrica automatica è rimasta un sogno ( od un incubo) e sembra che lo rimarrà, forse per sempre. Le strutture realizzate, anche se sulla carta sembravano estremamente affidabili e versatili, si sono rivelate più inaffidabili della fabbrica in cui l’uomo controlla il processo. Inaffidabili e costose, scarsamente flessibili. Hanno rivelato di avere proprio quei difetti che avrebbero dovuto eliminare. L’uomo ha avuto la sua rivincita sul robot. Questi sistemi si sono rivelati troppo complessi, praticamente ingestibili in sicurezza. E’ stato toccato il limite imposto dai programmi di controllo, dal cosiddetto software.

In effetti oggi abbiamo macchine, l’hardware, con enormi capacità di calcolo e gestione dei segnali che possono trasportare l’informazione, ma questa richiede che essi siano interpretabili, cioè che abbiano significato. Questo senso è fornito dai programmi che gestiscono le macchine di calcolo. Oggi non siamo capaci di sviluppare programmi affidabili per sistemi al di sopra di determinati livelli di complessità, tanto che questo è stato uno degli scogli su cui si è arenato il programma di guerre stellari di Regan, dato che è impossibile sviluppare un software che possa garantire la risposta e la precisione richiesti da quel progetto[4]. E tale impossibilità secondo alcuni analisti non è solo pratica ma teorica [5].

Anche a livelli inferiori si sono verificati problemi di tal genere, ad esempio nel sistema automatico di smistamento bagagli di un aeroporto negli USA, che ne ha ritardato per anni l’apertura[6].

La strada che attualmente viene battuta per la gestione di sistemi complessi è più quella di macchine capaci di imparare dall’esperienza, ma comunque è una linea di sviluppo divergente da quella della fabbrica automatica. Essa può più facilmente condurre alla realizzazione di robot sul tipo di quelli che appaiono nei film della saga di guerre stellari, piuttosto che alla fabbrica automatica.

 

L’informatica permette però  di scambiare comunque elevate quantità di informazione, oggi anche sotto forma di immagini. Lo strumento si presta quindi ad affrontare i problemi di comunicazione delle aziende, anche se lungo linee diverse da quelle della automazione delle linee di produzione.

Il primo passo che ha permesso è quello di migliorare la gestione dei magazzini, dove le giacenze di prodotti creano costi notevoli per l’immobilizzo di capitale. Il secondo ha portato all’eliminazione dei magazzini stessi. L’introduzione del cosiddetto “just in time” non è altro che il passaggio alla fabbrica delocalizzata, con la possibilità di scaricare sui subfornitori anche i costi di magazzino. Lo stabilimento di produzione è diventato sempre più un luogo di  assemblaggio di pezzi prodotti da società esterne.

Tutto ciò è possibile solo se esiste la possibilità di comunicare rapidamente, se esiste un sistema di trasporti efficiente, se esistono competenze e capacità produttive diffuse.

La comunicazione garantisce la definizione precisa dei livelli qualitativi, la rispondenza delle quantità ed i costi. I trasporti che i componenti arrivino.

Delocalizzare la fabbrica ha molteplici vantaggi. La riduzione degli immobilizzi di capitale, la flessibilità della manodopera e la possibilità di variare rapidamente i quantitativi prodotti sono importanti ma non i soli. Si può trasferire ad altri molti oneri di progetto e di produzione, particolarmente quando si tratti di produzioni a forte impatto ambientale. Si ottiene di poter utilizzare manodopera a costi molto più bassi, sfruttando l’inesauribile giacimento dei PVS, senza neppure doversene caricare la responsabilità., permette di spostare in altri luoghi e su altri soggetti i carichi fiscali [7].

Molte aziende lavorano oggi con scorte di magazzino bastevoli per qualche ora. Ciò significa che esse dipendono pesantemente dai trasporti esterni ed è cruciale che possano controllare i tempi di arrivo. Anche l’uso dei telefonini può incrementare la delocalizzazione della  produzione. Tale processo tende a scaricare all’esterno molti costi, spesso in maniera subdola, come per la delocalizzazione della manodopera, a volte ne crea altri, anche involontariamente, per la società per esempio quelli legati alla necessità di incrementare le strutture di trasporto od affrontare i relativi problemi di inquinamento ambientale.

Certo l’informatica ha influito molto sul modo di progettare, ma dal punto di vista produttivo ha sopratutto portato ad un diverso tipo di organizzazione.

I settori su cui invece ha avuto ed avrà ripercussioni pesanti anche in termini occupazionali, finché non si troveranno nuovi usi e quindi nuove possibilità di lavoro, sono quelli in cui gli operatori avevano il compito di gestire l’informazione. Non mi riferisco qui ai giornalisti, ma tutto il ceto impiegatizio nelle diverse amministrazioni, ai progettisti e disegnatori, a chi esegue materialmente i calcoli di progetto, agli insegnanti, tutti operatori che si sono trovati di fronte un concorrente capace di lavorare di più e più rapidamente.

Ancora da noi l’impatto è stato frenato dalla burocrazia della carta che ha usato i calcolatori sopratutto per aumentare la quantità di fogli prodotti, ma l’uso dell’informatica ha avuto ed avrà effetti fortissimi sul numero di posti di lavoro legati all’organizzazione delle aziende pubbliche e private. Sono cresciute e cresceranno le richieste legate alle nuove potenzialità dello strumento, ma si richiederà una enorme riconversione qualitativa e quantitativa a tutti coloro che fino ad oggi erano addetti alla gestione dell’organizzazione

Sono diventati più veloci i rapporti di controllo e di scambio delle informazioni, come il mito di Internet insegna. A tutt’oggi stiamo ancora rincorrendo e scoprendo le potenzialità dello strumento informatico, che probabilmente ha in serbo per noi non solo dispiaceri [8]. Molte sono le possibilità che già si intravedono per aumentare le risorse disponibili e la nostra capacità di migliorare il livello di vita della popolazione mondiale, ma ciò richiederà volontà politica e chiarezza di obiettivi.

Se si eccettua la produzione dei componenti elettronici veri e propri, la tecnologia connessa alla utilizzazione dei calcolatori e dei mezzi di comunicazione non è di altissimo livello e quindi la capacità di gestione può essere diffusa, dando luogo anche ad innovazioni che non richiedono eccessivi capitali per essere rese operative. Trattare l’informazione è molto meno costoso che trattare la materia, come le industrie hanno rapidamente compreso, ed il valore aggiunto di un prodotto risiede essenzialmente nella quantità di informazione che esso può inglobare rispetto alle risorse di partenza. Per questo motivo si insiste sulla necessità della ricerca e dell’innovazione di prodotto, dato che solo così si può scambiare e vendere l’informazione; l’unica vera merce di scambio.

Essa possiede inoltre un vantaggio rispetto ai prodotti materiali, cioè non si consuma né si divide.

Se insegno una lingua ad un altro, dopo saremo in due a conoscerla, ma se mangio un pane l’altro resta con la fame.

Questo è anche un difetto, dato che il mercato tende ad esaurirsi rapidamente per saturazione, di qui la gara all’innovazione. Se la ricchezza cercata sarà sempre più legata allo scambio di informazioni e non sapremo arrestarci una volta soddisfatta l’esigenza dei bisogni primari, una corsa senza fine ci aspetta, probabilmente continuamente accelerata dalla diminuzione del valore di scambio delle innovazioni. In un deserto un bicchier d’acqua è prezioso, ma quando la sete è soddisfatta per bere si inventano aranciate, gassose, liquori etc., scambiabili solo al variare del gusto del cliente.

 

 

  1. K. Derry, T.I. Williams, Storia della tecnologia, Boringhieri, Torino, 1977.
  2. Per il legame tra energia ed informazione resta fondamentale il testo di L.Brillouin, Science and information theory, Academic Press 1962. Si veda anche M.Tribus, E.C.McIrvine, Energia e informazione, Le Scienze, n.40, Dicembre 1971, pag.142
  3. W. Leontieff, La distribuzione del lavoro e del reddito, Le Scienze n.171, novembre 1982, p.148.
  4. Lin, Il software per la difesa antimissili balistici, Le Scienze n.210, febbraio 1986, p.13.
  5. F. Traub, H. wozniakowski, Il superamento dell’intrattabilità, Le Scienze n.307, marzo 1994, p.33.
  6. Wayt Gibbs, La cronica crisi del software, Le Scienze n.315, novembre 1994, p.86.
  7. Casalini, L’orto del vicino; M.Beschi, Un mondo a rovescio; N. Perrone, Quanta strada per scarpe prodotte senza tutele, Il Manifesto, domenica 3 novembre 1996, pp.16-17.
  8. Le Scienze n.279, novembre 1991, numero speciale su Comunicazioni, calcolatori e reti.

Testimonianze n.391, 1997